il blog di Sergio

Scooby dubbi doo

di Sergio

Villa Laconi

Cap. 1
Corti pantaloni cachi non arrivavano a coprire le ginocchia che, come giunti di tubi Innocenti articolavano le tibie con i femori.
Tonde, ispide di spellature sempre nuove, rosse e ricoperte di segni e graffi, si muovono agili nello spazio trasandato di un cortile dove ciuffi d’erba crescono indisturbati sollevando mattonelle sfibrate dal sole e dal calpestio.
Un bianco tavolo rotondo e arrugginito occupa il centro di quella che Gianni ha definito il suo Quartiere Generale.
Gianni è magro, biondo come se i suoi capelli fossero stati colorati direttamente dalla presenza quotidiana del sole nel cielo.
Gianni gira in quel cortile saltando da una mattonella all’altra cercando di non cadere; è il suo passatempo, gira intorno al tavolo in equilibrio sulle punte dei piedi passando di mattonella in mattonella.
A volte per rendere il gioco più difficile si impone di utilizzare soltanto quelle scure, a volte solo le chiare, a volte solo quelle spezzate.
Non sa quando arriverà Luigi, non lo sa e non vuole certo stare fermo ad aspettare così parte con il suo gioco.
Una sorta di Spiritual motorio ad ingannare lunghe attese in onore di Luigi.
Luigi che arriva, Luigi che non arriva, Luigi che non si sa.
Non ci sono molti altri bambini in paese e di sicuro nessuno così vicino a lui, così vicino da essere motore di ogni invenzione, specchio di ogni riflessione, parte di ogni avventura.
In comune le ginocchia spellate e una grande voglia di evadere: dalla situazione di ristrettezze economiche il primo, dalla necessità di apparire il secondo.
Così i due poli si attraggono sospinti da venti simili con opposte origini, prigionieri di qualcosa di diverso con fughe analoghe.
Fughe analoghe ma divergenti che li condurranno piano ad allontanarsi e a ritrovarsi dopo anni uno di fronte all’altro, su sponde opposte ma sempre in fuga, lo stesso motivo di fuga, venti simili con opposte origini.

Cap. 2
Via Tirabassi procedeva leggermente in salita verso il limitare della collina, era lastricata e tenuta con decoro, le piatte pietre del pavimento erano modellate con precisione e sulla parte destra, una cinquantina di metri prima di Villa Laconi, nasceva dal nulla uno stretto marciapiede in ottimo stato.
La via risultava spesso deserta perché l’unico motivo per percorrerla era quello di recarsi là, Villa Laconi la reggia prigione da cui Luigi, tutte le volte che eludeva la sorveglianza della babysitter, evadeva per raggiungere il suo amico nel cortile spazzato dal vento.
Movimenti curvilinei come onde o folate di vento tentavano di alleggerire la massiccia cancellata gialla che dava adito alla villa, il pesante cigolio dei suoi movimenti poteva essere sentito a distanza per cui Luigi non lo apriva mai, gli era più consono scavalcare e scivolare via in silenzio lungo via Tirabassi. Verso l’incontro con Gianni, verso l’epopea del quartiere generale, verso quella minuziosa collezione di invenzioni che decorava come una costellazione gli oscuri presagi di quei torridi pomeriggi estivi.

Cap. 3
I due si incontreranno, giudice lui ladruncolo l’altro, spetterebbe al primo giudicare il secondo ma chi ha il potere si sente giudicato a sua volta dall’unico che ha potuto sbirciare nel suo cuore, l’unico di cui sa di potersi fidare.
Uno contro l’altro, uno insieme all’altro, protagonisti di un inesauribile paradosso esistenziale che li vorrebbe vicini ma li tiene lontani, li spingerebbe uno contro l’altro ma li distoglie.

Cap. 4
Sembrava impossibile eppure è successo, abbiamo litigato. Io e Luigi, lui se ne è andato, mi ha voltato le spalle e si è incamminato, io soffiavo come un rospo guardando le pietre e maledicendolo, lui si allontanava, lui scompariva, io soffiavo.
“E allora vai, vaiii” gli avevo urlato sulla faccia con i pugni chiusi con una voce che non sembrava mia.
E lui l’aveva fatto, lo stava facendo, se ne stava andando. Forse avevo esagerato ma lui non doveva minacciarmi in quel modo, non doveva farmi cadere addosso la sua posizione, non doveva farmi pesare i suoi regali, non poteva farlo.
“Non ti porterò mai più caramelle, quelle che ti piacciono tanto.”
“E allora vai,vaiii” gli avevo urlato.
Non doveva farlo, quando la caccia alla lucertola era cominciata non c’era distanza tra me e lui, uno stava davanti e l’altro piano si avvicinava alle spalle dell’animale con le mani a coppa e non decidevamo noi, era la lucertola a decidere con la sua direzione, noi eravamo uguali, gregari dello scopo: catturarla viva.
Non doveva farlo, il castello di sassi era di entrambi, il passaggio segreto era nostro, l’albero del cinghiale era stato nominato insieme, il signor Fieno era il cavallo di Ginetto, solo noi sapevamo dove stava la chiave del garage di Pietrone.
Era tutto uguale, tutto per noi due, costruito da noi due, su misura per noi due.
Ma lui disse che toccava a lui decidere, lo faceva anche suo padre…decideva.
Tutto andava via così, senza pensare, tale era la voglia di vedersi che tutto funzionava, carburava.
Sembrava così facile, ci divideva una diversa condizione economica e sociale ma ogni azione sembrava fosse diretta a riempire quel vuoto, ad annullare quella distanza, a superare quei cento metri che dividevano casa mia da Villa Laconi.
Io lo guardai stupito, era una stupidaggine ma lui insisteva: questo non lo chiameremo più Quartiere generale, lo chiameremo Villa Laconi .2”
Io non capivo questo improvviso bisogno di decidere, avrei anche potuto accettare ma quel modo mi indispettiva e non cedetti.
“Villa Laconi è casa tua, perché dovrei chiamarla così? Il suo nome è Quartiere Generale, l’abbiamo deciso insieme.”
Non ci fu niente da fare, il diritto usurpato di decidere sembrava più impellente di qualsiasi cosa e lui tranciò di netto quei legami che ci univano:” Tu sei povero, la tua famiglia è povera, tocca a me decidere che sono ricco.”
Feci due passi indietro incerto poi rilanciai con timore:” ma cosa c’entra…noi siamo amici.”
Quella frase era l’ultima spiaggia, non poteva non tenere conto di tutti quei segnali che costituivano la nostra amicizia ma mentre la pronunciavo avevo il sentore che quel giorno non sarebbe servita.
Sentivo i nostri due mondi allontanarsi e a quel porgere la mano lo vidi girarsi: “Non ti porterò più caramelle.”
“Caramelle? –chi gliele aveva mai chieste? Vuoi davvero tracciare una linea, un confine, vuoi allontanarti così, improvviso, come fosse niente?- E allora vai vaiii”.
Lui mi guardò, io lo guardavo a pochi centimetri dal suo naso, investito da tutta la mia delusione arretrò, si girò e si incamminò verso il suo regno e lì si chiuse.
Io soffiavo sulle pietre cercando di buttare fuori una ruggine che non smetteva. Vai vaiiii quelle “i” ruggivano nel mio cervello, non ero mai stato così arrabbiato.

Cap. 5
Il papà di Luigi ha uno strano rapporto con la polvere, su di lui non si deposita, non attecchisce.
Io lo sentivo arrivare in paese, il rumore del motore della sua auto era inconfondibile, scoppiettava secco e rapido. Correvo alla finestra e il riflesso di quei parafanghi lucidi e neri faceva da ambasciatore a tutta quella carrozzeria in perfetto stato.
Una nuvola di polvere si sollevava al suo passaggio ma, quando l’auto si fermava davanti al cancello, si posava con rapidità, una genuflessione del pulviscolo in attesa che uscisse lui, il signor Laconi.
Stivali, guanti, pantaloni, giacca, cappello. Tutto perfettamente in ordine, lucido, stirato, plastico.
La terra che non insidiava lui andava d’accordo con il mio papà, lui ci lavorava con la terra, doveva esserle amico, come un padre curarla, come una madre accarezzarla, come un allevatore nutrirla, come un artista capirne i messaggi, come una levatrice coglierne i frutti.
Le crepe delle sue mani callose sembravano stuccate con la terra, le unghie, le scarpe, gli attrezzi tutto incrostato di piccole zolle, la sua pelle arsa dal sole, colore della terra.
A volte sembrava lui stesso di terra, un enorme golem buono che, chino, sollevava lo sguardo per salutarmi e si rimetteva al lavoro.
Un enorme papà di buona terra, troppo buona per capire che in quel modo sarebbe andato avanti poco. Troppo poco. Troppi gli sforzi per strappare tracce sempre più esili di fertilità dal terreno, troppi problemi, troppa fatica, troppe cose da pagare, troppo tutto, BUM.
La grande esplosione di quel mattino irrorava di violetto le unghie sulle sue dita rigide. BUM
Le urla isteriche di mia madre attraversavano le rughe delle grandi mani callose come canyons privi di eco. BUM
Una voce non andava e non veniva dalla mia gola. BUM
Un passo non procedeva e non indietreggiava tra le mie gambe. BUM
Un cenno non proveniva non oscillava le mie braccia pesanti.
Uscii nel Quartiere generale, di solito era calmo e silente ma quel giorno gridava, urlava la mia solitudine, la mia incapacità, la mia paura, la mia rabbia.
Tutto ronzava roteandomi intorno mentre cercavo un punto d’appoggio, tutto vorticava come in un ciclone e io caddi, con la testa tra le mani sotto il tavolo bianco tappandomi le orecchie, chiudendo gli occhi, raggomitolandomi per chiudere ogni accesso al mondo che si avvicinava e mi pressava e mi toglieva il respiro e lì, così, rimasi.
Sentii quella mano accarezzarmi i capelli, era un tocco famigliare, non c’era altro da dire, mi voltai e abbracciai mia madre con tutta la forza che avevo cercando di sprofondare dentro a quel seno morbido.
Le nostre tempie incollate pulsavano messaggi di vita per annichilire la morte che ci aveva devastati.
Anche mia madre era un golem buono di buona terra, prima di allora non ne ero convinto, adesso lo sapevo, era un golem ancora in vita fatto di terra, sempre.

Cap. 6
Sempre!
-Sempre- forse non avrei mai dovuto dirlo perché da quel giorno mi perseguita, nella sua presenza o nel suo mancare, mi sta dietro come un’ ombra.
Sempre, con quella esse sibilante avrei dovuto accorgermi subito della sua perfidia, della sua ambivalenza, della sua incoerenza, del suo tradire per mandato.
E invece l’ho detta, o forse solo pensata ma l’ho fatto. L’ho detta a mia madre e l’ho tradita e il dolore è stato ancora più devastante.
L’ho detta a mia moglie e a mio figlio:”Staremo sempre così.”
Avrei fatto meglio a dire”mai!” ma nei suoi assunti di eternità è altrettanto fallace.
Ma mai, mai avrei pensato di rivedere Luigi in questo modo, mai mi sarei immaginato di incontrarlo in un ruolo così diverso, con quella palandrana scura, arroccato su un seggio con un grosso libro aperto davanti ai suoi occhi severi.
Lesse il mio nome e le accuse.
Rallentò, alzò lo sguardo incontrandomi, deglutì, lesse le accuse sul mio conto.
Mi aveva guardato negli occhi, solo per un attimo, in quell’attimo avrei voluto infilare come in uno zaino già pieno un ammontare di frasi parole pensieri e domande.
“Ciao, sono io, sono Gianni, come stai? Che ci fai qui? Sei diventato magistrato. La villa…sei partito d’improvviso senza salutare, sono rimasto lì, qualche furto si, qualcosa andato male, si ho un bimbo, una moglie, fame, si, tu mi conosci, mi conosci, sono un lavoratore, qualcosa è andato male, si qualche furto si, ma per necessità, si, noi ci conosciamo, si, dai, si, si…ma le sue palpebre troncarono quel flusso di pensieri rivolto a lui restituendolo malamente al mio cervello disorientato.
Noi ci conosciamo, eravamo amici, non potrà trattarmi come uno qualsiasi, non potrà, è lui a decidere, lui può fare qualcosa, non può essersi dimenticato, non può fare finta di niente.
E mentre mozziconi di frasi frullavano in me lo guardavo fissamente sperando di riaccendere quel contatto visivo.
Lui non mi guardò più, lesse le frasi di rito, compì tutti i doveri di sua competenza ma non ebbe più di alzare lo sguardo.
Così in quel momento provai per lui e per me una gran pena, anni di studio, tirocinio, concorsi, lodi per essere lì, su quel trono, con gli occhi bassi.
“Che Ironia!” pensai sorridendo, io che avrei voluto evadere dalla mia condizione di povertà e lui che avrebbe voluto fuggire dalla necessità di apparire a tutti i costi degno della sua posizione.
Due ragazzi in fuga che si separano e si ritrovano dopo vent’anni rinchiusi nelle stesse gabbie.
Venti simili con opposte origini ma stesso deludente epilogo.
Venti simili con opposte origini e lo stesso deludente…epilogo.

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